Leggere l’opera di Pasquale Vallone: “Don Giuseppe Furchì” (vai alla scheda del libro), è come essere presi per mano da un abile maestro tessitore di sentimenti e lasciarsi portare con leggerezza alla conoscenza di una persona speciale, vero esempio di vita in questa umanità che sembra volgere al declino dei sani principi.
Egli lo fa col piglio non dico della narrazione, ma con la delicatezza che gli è propria.
Perciò, sussurrata come fosse una fiaba, in grado di suscitare allo stesso tempo, curiosità e desiderio di conoscere il prosieguo.
Questo è il modo di esporre gli eventi, dei quali, il nostro autore in parte è stato teste a volte cosciente o inconsapevole.
Lo fa in punta di piedi e da una posizione privilegiata che fu la medesima realtà del nostro protagonista, senza ordire oscure trame, delle quali il lettore si potrebbe annoiare dinanzi a ciò che invece è ovvio.
Poco importa che il lavoro in questione è la biografia di un uomo di questo mondo.
Infatti, il punto di forza non è tanto la puntuale disamina di più eventi successi intorno ad un servo di Dio e al suo ministero, quanto la convinzione e la volontà di far conoscere anche ai lontani, l’esplicita certezza che si parla di un uomo che sicuramente ha ricevuto qualche talento in più delle altre creature, e secondo i dettami del Vangelo, lo ha saputo amministrare, senza insuperbirsi, anzi lo ha elargito con l’umiltà di chi, si considera il servo degli ultimi.
Tutto ciò, Vallone ce lo dice chiaramente e senza giri di parole, perché secondo lui, don Giuseppe ha vissuto le azioni intraprese, col distacco di chi, veramente sa di non appartenere a questo mondo, ed ogni cosa posseduta oltre il necessario, quindi superflua, viene negata a chi invece l’ha di stretto bisogno.
Ed il bello è che ha così operato, senza neanche avvedersi di questa sua straordinarietà, camminando nel solco dell’amore fraterno ed universale.
In verità, la marcia in più che don Giuseppe aveva, non è sfuggita all’amico attento, che lo ha conosciuto da giovane e con la dovuta chiarezza e semplicità, ha saputo riportarne i tratti salienti del suo vissuto.
In verità l’opera del nostro scrittore, non solo mette in risalto le doti umane e morali del chierico, ma è anche un documento nel quale trovano spazio anche alcuni riferimenti normativi e regole che disciplinano gli ambienti del clero, ed egli, senza divagare ce li porge ridotti all’essenziale, che in tal modo risultano funzionali per l’economia dell’opera, coinvolgenti ed utili per la formazione di ognuno.
Non di meno importanza è il suggerimento che ci dà il nostro Vallone, il quale, ci indica don Peppino quale esempio da seguire, perché secondo lui, durante la vita, col suo “modus vivendi”, il nostro Sacerdote, senza nulla pretendere e senza guardare in faccia il prossimo, ha fatto tanti miracoli di carità umana.
Doti morali, che sicuramente gli hanno consentito di incrementare la sua ricchezza nei cieli. Secondo me, l’ultimo miracolo, anzi speriamo che non sia quello finale, l’ha fatto lasciandosi dietro di se, una persona talmente sensibile come il nostro autore, che nel testimoniare la profonda stima nei confronti della persona, con la quale, spalla a spalla, insieme hanno percorso parte di questo cammino terreno, vivendo le stesse apprensioni per chi soffre. Con questa opera, che spero sia letta da molti, ha saputo elevarne le qualità non comuni dell’uomo di mondo, dell’amico e del religioso, e sicuramente sortirà un effetto benefico in chi si accinge a leggerla per amore del sapere.
Andrea Runco