Di seguito un brano del libro di Maria Putruele “Fiume di parole (solo tracce di me)”, terzo volume che l’autrice pubblica con me.
Il nostro passato, la nostra storia, per non dimenticare
Trascrivo qui, di seguito, alcuni fatti storici di cui, in parte, sono venuta a conoscenza dai racconti di persone incontrate nella mia fanciullezza e, in parte, li ho vissuti personalmente.
Vorrei “immortalare” un’epoca storica non molto lontana per tanti, ma sconosciuta alle giovani generazioni. Mi soffermerò a raccontare di primi anni del ventesimo secolo (1900). Le case, a quei tempi, erano costruite tutte con mattoni di fango e pula (“i bresti”), ed erano semplici e poco spaziose (al massimo due camere e una piccola cucina con focolare a legna). Erano disposte su due piani: il piano terra era adibito, una parte a magazzino, un’altra parte per alloggiare qualche animale (asino o vitello etc.) e da un lato era posizionata la scala, spesso in legno, per accedere al piano superiore. Queste case, nel poco spazio disponibile, dovevano ospitare famiglie numerose che tenevano in grande considerazione la presenza dei nonni e i loro saggi consigli. Amati e rispettati, i nonni rappresentavano un sostegno insostituibile nel dare i consigli giusti nelle decisioni importanti, e occupavano il primo posto nella scala degli affetti.
I nonni si amavano e si rispettavano pur non avendo nulla da offrire: né la forza-lavoro, né il sostegno economico perché la pensione per loro non esisteva ancora. La miseria era tanta a quei tempi, ma l’affetto, il rispetto e la condivisione erano immensi.
In molte case c’era una sola stanza e, per sopperire alla mancanza di spazio, si impiantava una controsoffitta in tavole resistenti sulla quale veniva adagiato un saccone di tela di canapa che veniva riempito con le foglioline tenere che avvolgevano le pannocchie di granturco (“i vruij”). Questo era il lettone su cui dormivano i ragazzi di casa. Un altro saccone, simile a quello appena descritto, veniva adagiato la sera ai piedi del letto dei genitori, e lì dormivano le bambine, mentre il più piccolo aveva il privilegio di dormire con mamma e papà. In un angolo, appoggiato al muro, c’era un tavolo (“a buffetta”) che veniva spostato per la cena, ma non era capiente per tutti. I più piccoli usavano, come piano d’appoggio, una cassapanca. Uno stipo poi serviva per conservare, nella parte bassa, il pane e qualche poco di cibo avanzato (cosa che accadeva raramente). Nella parte alta venivano custoditi i bicchieri, le tazze, i tazzoni e i bicchierini per servire da bere ad eventuali ospiti. Per bere l’acqua ci si serviva di un unico recipiente (“a bumbula”), cioè una brocca di terracotta a due o a quattro manici e di “u bumbuleiu” che aveva due bocche laterali, una più grande e una più piccola, per la fuoriuscita dell’acqua. I bicchieri, sul tavolo, erano solo per il capofamiglia e per il nonno, che potevano accompagnare la cena con mezzo bicchiere di vino. Durante il giorno si pranzava nei campi e solo la domenica, giorno dedicato al Signore, che non si doveva lavorare, si poteva mangiare in casa e gustare un buon piatto caldo di pastasciutta.
La pasta veniva condita e insaporita con un ragù nel quale era stato cucinato un pollastro ruspante “sacrificato” per l’occasione. Le porzioni di carne erano divise secondo l’età dei commensali: i pezzi più consistenti e più pregiati erano per il capofamiglia e il nonno, mentre le zampe, che nessuno voleva, toccavano sempre alla mamma. Regnavano la miseria e la povertà, ma c’era tanta accoglienza e solidarietà per chi non aveva proprio nulla. Infatti, molte volte, accadeva che persone, da altri paesi, venissero a bussare alla porta di notte per chiedere asilo e un po’ di cibo per riprendere, l’indomani, il cammino verso altri borghi e continuare a chiedere l’elemosina. A nessuno veniva negato aiuto. Ogni viandante diventava quasi “membro della famiglia” e trovava accoglienza, ristoro, cibo e calore. Ora i miei ricordi. Dopo un’estenuante giornata di lavoro, durante le lunghe sere invernali, intorno al braciere acceso si riuniva la famiglia, e i più grandi intrattenevano tutti con racconti di maghi, di streghe e di folletti. Sì, di folletti!
Ricordo che ci narravano “du fiettu”, un essere che nessuno aveva mai visto ma che tanti sostenevano di averne avvertito la presenza. Questo folletto era ritenuto quasi un “nume tutelare” della famiglia e della casa, e quando si era costretti a cambiare abitazione il folletto “si spostava” nella nuova casa nascosto nel treppiedi di ferro su cui si poggiavano i recipienti nei quali si cuocevano i cibi (“u tripitu”).
Noi bambini ascoltavamo incantati e ci addormentavamo sognando questi esseri invisibili, che nella nostra immaginazione infantile avevano sembianze spaventose e orripilanti. Di notte non c’era illuminazione per le strade e nelle case, e il buio alimentava e ingigantiva la paura di grandi e piccoli. Eppure non ci stancavamo mai di ascoltare tante e tante volte quei racconti inquietanti ma molto ricchi di fascino e di mistero. Si avvertiva così il calore e la comunanza della famiglia, che ci faceva sentire al sicuro. Frugalità, tanto lavoro, giornate non certo felici e spensierate… ma il ricordo di quegli anni occupa un posto molto caro e importante nel mio cuore.
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MarioVallone