La “Premessa” del libro A MIA CURA di Katia Debora Melis (Mario Vallone Editore).
Premessa
La poesia della Melis appare implicata nel problema della conoscenza e della percezione del mondo e, di conseguenza, il linguaggio, compatto e funzionale alla medietà del registro discorsivo, ricerca una lingua essenzialmente media, atta a creare pensiero e immagini. Nella raccolta, il soggetto fa esperienza del mondo proprio grazie all’immersione a volte esistenziale (“lo sguardo / lo spingo nelle vertigini / profonde e scaltre / della psiche”), a volte materica, a volte spirituale, passando per la condizione biologica: gli oggetti, attraverso questo recupero ed esaltazione, rivelano così la loro autenticità. C’è convergenza tra ciò che è “storia”, ovvero ragione, cultura, linguaggio, opere, e ciò che è “esistenzialità”, vale a dire assoluto, silenzio, morte, nulla, Dio, condotta, sul piano espressivo, con accordi che possono sembrare anche stridenti (“Osservo proiezioni di cose / che non sono vere, che son solo le ombre / come sono ombre le stelle nel cielo”).
L’umano è alla ricerca del senso del proprio atto, il vivere, e il mezzo della cifra espressiva è la poesia: essa guida nell’indagine, sempre mossa dallo stupore e dalla meraviglia, verso la totalità esperienziale dei contenuti dell’esistenza, la poetessa la innerva della propria componente emotiva, della “cura” per non fare “rumore”, per non “macchiare” di voce lo spazio. Ci si accosta al mondo e ai sui simili partecipando con ogni senso: si guarda, si prova, si sente, si aderisce emotivamente alla vita nel suo significato arcano e si creano precise filigrane che percorrono la silloge: gli enigmi della Vita e della Morte («E Thànatos crudele / squarcia straccia / e getta via, / ma poi conserva. / E salva. / Miriadi di piccole / vite insignificanti / sconosciute / nel mistero più grande / più buio. / Trionfo»), lo stupore per la propria e l’altrui esistenza, espresso senza enfasi, il travaglio della stessa essenza/esistenza («La colonna portante di questi giorni / è una solitudine / che contiene danze / di corpi e pensieri rotanti / che urlano strazio / cercando sollievo»), il desiderio di arresto e di rifugio in un passato recente buono di cui è dovunque ancora ricca testimonianza nei ricordi e negli oggetti. I periodi, sorretti più dalla paratassi che dall’ipotassi, instaurano, anche in virtù di un sapiente uso delle figure retoriche, delle correlazioni tra natura ed uomo, tra paesaggio e interiorità, tra il visibile e il profondo, tra l’oggettivo ed il soggettivo: “urge tra i venti trasformare / le mie fragilità / legarle al ramo / correre correre via / bruciare tra i colori del monte / fluire nel terrore della nuova / sinfonia / fatta cenere / nell’acqua”; “Sto guardando in faccia il sole: / già mi piace quel sorriso / che si schiaccia / sulla mia faccia grigia”.
Quella della Melis è una poesia che penetra, allora, il mistero delle cose che circondano l’uomo (“spingere lo sguardo oltre il non posso / per mantenerlo vivo”), delle situazioni/esperienze che vive, delle emozioni e dei sentimenti che prova, una lente speciale che mette a fuoco, una lucerna dapprima fioca e poi splendente che illumina per il soggetto l’oggettivo, una mappa sempre più leggibile che ci conduce alla meta tramite le parole. L’autrice le vaglia e le setaccia, le arricchisce con l’esperienza che compie come soggetto e le carica di una connotazione che serve da “ponte” con il lettore, ossia nello stabilire quell’empatia che, dopo la lettura, ci aiuta, ci salva la vita facendoci tollerare ed accettare aspetti e momenti negativi quali la solitudine, il dolore, la sofferenza, la perdita: “Foglie dentro gabbie, / cercano finestre, ma non sanno più muoversi / questi pensieri. Intanto il corpo tramonta”, oppure, in maniera più rappresentativa, questi versi: “Chi nella poesia / cerca solo stille / di miele purissimo / ha sbagliato alveare”.
È una poesia che si crea con parole del linguaggio soggettivo e di quello che in questo viaggio di conoscenza si conquista, si acquisisce e si costruisce, che fa leva sulla molteplicità delle figure e sulla particolare sintassi: da qui si comprende l’uso della metafora, del termine messo in forte rilievo nel versicolo dall’ enjambements (spesso con doppia aggettivazione a marcare il sostantivo: “Al loro duro silenzio / ostinato”, “di ruvide mani / aperte”, “memoria ancestrale eterna / imperitura”, “piccole / vite insignificanti / sconosciute”, in questi ultimi due casi con tricolon aggettivale; altre volte, invece, semplice e diretto: “solitudine / eterna”, “radice / ribelle”), dei versi allitteranti (“dentro il freddo ininterrotto / interminabile / in un minimo diluirsi / del durare”; “Sii paziente in quest’inverno / della sopravvivenza / se nei giorni che avanzano / di tanto in tanto ci separa una vita”, “Mimica e movimenti / inquinamento del silenzio”), della personificazione (“lasceremo una valigia sfinita”, “Come l’acqua / in cammino”, “Ora il sole ci sta guardando”, “il cielo butta / ciotole d’autunno”), della sottile descrizione che sfocia in un’ampia aggettivazione: bastino solo due occorrenze: “nell’infinito contenuto incontenibile” e “velo sottile e profondo”.
La poesia della Melis, e questi pochi indizi lo asseverano, è una graduale e personale espugnazione del tutto intorno (“Un’infinità di versi / è il mio pensiero / fatto a bolle / d’ossigeno / puro. Respiro”), una illuminazione della realtà scaturente dal pensiero e dal cuore che si fonda sulla combinazione delle parole capaci di condensarsi e creare immagini, concetti, idee, squarci di verità che aprono l’animo dell’uomo verso l’oltre. Perviene, la poetessa, con questo suo iter rivelatore ad una fiducia totale nella poesia in senso ontologico: ciò che prende forma nei versi, ovvero figure, paesaggi, moti dell’anima, memorie, colori, suoni, atmosfere, non sono che “voci” dell’umano che chiedono di essere ascoltate, di esser disvelate, di essere “curate” per diventare vita pulsante, sempre nuova e unica. La ricerca individuale e l’incontro con le parole crea le esperienze universali capaci di coinvolgere il lettore, di stabilire con lui comunanza e condivisione, preparandone l’animo ad accogliere il seme della verità, destinato a gemmare di continuo e gettare uno sguardo, ammirato e accogliente, verso il futuro: “Se poi accadrà / che dal peso dei tuoi / rami nudi / cada sul mondo / una distesa di candore, / qualcosa resterà oltre all’azzurro del cielo / per creare nuove parole”.
Francesco Martillotto
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MarioVallone